Dopo aver Cliccato scorrete tra le Webmail in basso!

Posta Telecom da casa (WebMail)

Clicca sull'immagine sopra per accedere alla posta elettronica Telecom Italia da Casa. Webmail Telecom Italia

venerdì 22 giugno 2012

ancora su esodati

Intesa Sanpaolo: banca annulla accordo su esodati, sciopero 2 luglio


19 Giugno 2012 - 17:59


(ASCA) - Torino, 19 giu - Il decreto esodati irrompe in Intesa Sanpaolo che annulla l'accordo del 29 luglio che ne prevedeva circa 3500. E i sindacati unitariamente dichiarano sciopero per il prossimo 2 luglio assieme al blocco degli straordinari per il 30 giugno e il primo luglio. Non hanno avuto esito positivo infatti gli incontri di ieri e oggi con la delegazion aziendale tra cui il direttore Francesco Micheli ex capo del personale di Intesa e ora consulente per le questioni occupazionali. A creare il muro contro muro non e' stata pero' in senso stretto la decisione di far rientrare i dipendenti gia' fuori dalla banca, quanto quella di nuove misure di contenimento costi proprio a causa del fallimento di quelle intese. In sostanza Banca Intesa-Sanpaolo si dice pronta a riassumere i lavoratori gia' usciti, senza copertura del fondo aziendale e senza assegno straordinario, ferma le procedure di uscita per gli altri, ma allo stesso tempo comunica che dovra' recuperare sul costo del lavoro di tutto il personale i risparmi previsti dall'accordo 2011 (che erano stimati in 300 milioni).

Una soluzione che i sindacati (Dircredito - Fabi - Fiba/Cisl - Fisac/Cgil - Sinfub - Ugl - Uilca) giudicano ''grave e inaccettabile''. In dettaglio la banca ha comunicato che sono stati annullati i contenuti dell'accordo siglato il 29 luglio 2011 con il blocco definitivo delle uscite di personale con il Fondo di Solidarieta' (che riguardano circa tremila dipendenti,ndr), la riassunzione dei 561 lavoratori esodati dal 1* gennaio al 31 maggio 2012 e la riduzione del costo del lavoro per 250 milioni di euro ''utilizzando tutti gli strumenti di legge e di contratto, tra i quali, a titolo esemplificativo, la sospensione dell'attivita' e riduzione di orario, revisione del sistema degli inquadramenti e attribuzione delle mansioni, mobilita' territoriale, applicazione degli orari di lavoro e di sportello stabiliti dal rinnovo del Contratto Nazionale, flessibilita' delle articolazioni individuali di orario e ricorso al Part Time, oltre che fruizione delle ferie ed ex festivita'''.

''La contraddittoria e frammentaria illustrazione da parte aziendale del modello organizzativo e degli assetti societari non consentono l'avvio della trattativa'' commentano i sindacati inuna nota unitaria chiedendo l'immediato ritiro della procedura e il mantenimento degli accordi di armonizzazione. ''Abbiamo manifestato all'Azienda la nostra consapevolezza della crisi in atto e consideriamo opportuna la doverosa attenzione manifestata nei confronti dei lavoratori gia' in esodo e di quelli che ancora non hanno lasciato il servizio - aggiungono in conclusione -, ma siamo totalmente contrari alle modalita' e allo strumento che l'Azienda intende utilizzare, con la riduzione indiscriminata del costo del lavoro di 250 milioni di euro e dei diritti dei lavoratori'' .

lunedì 18 giugno 2012

situazione esodati telecom italia

MILANO (Reuters) - Il ministro del Lavoro Elsa Fornero dice che si sta ancora lavorando per individuare esattamente il numero dei lavoratori cosiddetti esodati in Italia e che tale ricognizione richiede ancora tempo.

Il ministro è intervenuta sul tema nel corso di un incontro alla Regione Lombardia rispondendo ad un lavoratore esodato.

"Ho sempre parlato di salvaguardia di certe persone rispetto alle quali si concede la deroga rispetto all'utilizzo di norme più severe. Una prima stima dell'ufficio tecnico del ministero indicava [il loro numero] in 50.000 unità, poi l'abbiamo portata a 65.000 per avere un margine di flessibilità, ma ci siamo accorti dopo che c'erano altre persone, ma per loro il problema non è immediato e richiede una ricognizione e una individuazione dei criteri a cui stiamo lavorando", ha detto la Fornero.

Il ministro ha poi aggiunto: "Vi chiedo di avere un po' di pazienza, non tutto si risolve in tempi brevi. Vi prego di considerare che le risorse finanziarie del Paese sono in questo momento abbastanza limitate".

Il Pd ha chiesto che il problema dei lavoratori esodati venga risolto contestualmente all'approvazione in Parlamento della riforma del Lavoro che il presidente del Consiglio ha chiesto che avvenga prima del Consiglio Ue del 28 e 29 giugno.

(Giancarlo Navach)

Sul sito www.reuters.it altre notizie Reuters in italiano. Le top news anche su www.twitter.com/reuters_italia




Lettera sul lavoro - favorire il rientro dei 50-60enni nel tessuto produttivo e prevedere un trattamento di disoccupazione

I (veri) conti sugli esodati
e la soluzione possibile

Altri 24.500 potrebbero essere «salvaguardati»
Per gli altri la strada degli incentivi all'assunzione

Lettera sul lavoro - favorire il rientro dei 50-60enni nel tessuto produttivo e prevedere un trattamento di disoccupazione
I (veri) conti sugli esodati
e la soluzione possibile
Altri 24.500 potrebbero essere «salvaguardati»
Per gli altri la strada degli incentivi all'assunzione
Caro direttore,
per decenni ci siamo consentiti di andare in pensione a cinquant'anni accumulando debito pubblico, poi debito per ripagare il debito e gli interessi sul debito, finché i creditori hanno incominciato a dubitare della nostra capacità di restituire il tutto. Così, di colpo, come per effetto dello scoppio di una «bolla», la drammatica crisi del debito pubblico nel dicembre scorso ci ha costretti a rimettere i piedi per terra.
Fino ad allora avevamo fatto finta che con 60 anni di età e 37 o 38 anni di contribuzione un lavoratore si fosse «guadagnato il diritto» alla pensione. Se si considera che a 60 anni gli italiani hanno una attesa media di vita di 23 anni se uomini, 24 se donne, è evidente l'insostenibilità di quell'idea: non è possibile che 38 anni di contribuzione nella misura del 33 per cento costituiscano un finanziamento sufficiente per una pensione pari a tre quarti o quattro quinti dell'ultima retribuzione, destinata a durare per 23 o 24 anni. Il sistema poteva stare in piedi soltanto con un cospicuo contributo dello Stato: ed è infatti ciò che è accaduto per tutto il mezzo secolo passato, nel quale lo Stato ha contribuito ogni anno con l'equivalente di molte centinaia di miliardi di euro al pareggio di bilancio dell'Inps.

In realtà lo sapevamo benissimo
: tanto che nel 1995 abbiamo fatto la riforma delle pensioni necessaria. Ma l'abbiamo applicata solo ai ventenni e trentenni, cioè ai nostri figli e non a noi stessi. Il governo Monti, appena costituito, ha dovuto fare in due settimane quello che avrebbero dovuto fare i governi precedenti nell'arco di due decenni, estendendo la riforma del 1995 a tutti. Naturale che in questo modo molti di noi cinquantenni e sessantenni siano rimasti scottati; ma la colpa non è del governo che ha gestito lo scoppio della bolla: è di chi per tanto tempo ha lasciato che si gonfiasse.

Ora, certo, occorre curare le scottature prodotte
da quello scoppio. Ma non possiamo farlo tornando indietro rispetto alla riforma. Già con il decreto «salva Italia» del dicembre scorso sono stati «salvaguardati», cioè esentati dall'applicazione delle nuove regole, circa 65.000 sessantenni senza lavoro e molto prossimi al pensionamento secondo le regole vecchie. Oggi a chiedere di essere «salvaguardati» sono moltissimi altri, un po' meno vicini al traguardo. Se si esaminano le categorie interessate, ci si rende subito conto che - oltre a circa 24.500 lavoratori per i quali un accordo stipulato prima della fine del 2011 ha previsto la cessazione del lavoro dal 2012 in poi, con o senza assistenza di un fondo di solidarietà (categoria alla quale pare davvero logico estendere la «salvaguardia» già disposta per casi analoghi con cessazione del lavoro entro il 2011) - tra gli altri aspiranti potrebbero annoverarsi tutti i cinquantenni e sessantenni attualmente disoccupati: l'Inps in particolare segnala 173.100 lavoratori con più di 53 anni, che per i motivi più svariati hanno cessato di lavorare tra il 2009 e il 2011, e 122.750 nati dopo il 1946 e senza lavoro da anni, autorizzati dallo stesso istituto ai versamenti contributivi volontari (per ulteriori dati rinvio al mio sito). Esentare dall'applicazione delle nuove norme tutti questi casi equivarrebbe evidentemente a svuotare la riforma del dicembre scorso, ripristinando la situazione finanziariamente insostenibile precedente e l'ingiustizia tra generazioni, con un incremento di decine di miliardi del debito di 2 mila miliardi che già lasciamo da pagare ai nostri figli e nipoti.

I cinquantenni e sessantenni
senza lavoro non devono essere incoraggiati a uscire definitivamente dal tessuto produttivo, ma aiutati a rientrarvi, con tutti gli incentivi e le agevolazioni possibili per favorire il loro ritorno a un'occupazione retribuita adatta a loro, ancora per qualche anno. La soluzione deve consistere in una norma speciale che estenda, nella misura delle disponibilità finanziarie, il trattamento di disoccupazione, e al tempo stesso istituisca alcuni forti incentivi all'ingaggio di queste persone: per esempio con esenzioni contributive, sgravi fiscali, una disciplina speciale che consenta un periodo di prova fino a un anno nel rapporto di lavoro dipendente, e che agevoli la costituzione di rapporti genuini di collaborazione autonoma continuativa con le amministrazioni locali, dove ne ricorrano gli elementi essenziali. In altre parole, occorre mantenere fermo il principio per cui a 50 e a 60 anni si può ancora lavorare, e si deve essere disponibili a farlo se si vuole beneficiare di un sostegno del reddito; ma anche fare tutto il possibile per abbattere il diaframma che impedisce a questa offerta di lavoro maturo di incontrarsi con la domanda potenziale, soprattutto nel settore dei servizi alle famiglie e alle comunità.

La nuova cultura del lavoro di cui il Paese ha urgente bisogno deve liberarsi dall'idea che per un sessantenne trovare un lavoro, anche magari a part-time , sia impossibile. Per liberarsi di quell'idea non basta, certo, un tratto di penna sulla Gazzetta Ufficiale : occorre anche far funzionare meglio il nostro mercato del lavoro, abbattendo il diaframma che impedisce l'incontro fra una grande domanda di servizi alle famiglie e alle comunità locali e questa grande offerta potenziale di manodopera, che può essere facilmente posta in grado di svolgerli.
www.pietroichino.it
Pietro Ichino

lunedì 11 giugno 2012

su casi di mobbing in telecom italia

http://trailrealeelimmaginario.typepad.com/tra_il_reale_e_limmaginar/2006/10/piange-il-telef.html

da leggere

Mobbing sul lavoro [modifica]
Questa pratica è spesso condotta con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro, senza quindi ricorrere al licenziamento (che potrebbe causare imbarazzo all'azienda) o per ritorsione a seguito di comportamenti non condivisi (ad esempio, denuncia ai superiori o all'esterno di irregolarità sul posto di lavoro), o per il rifiuto della vittima di sottostare a proposte o richieste immorali (sessuali, di eseguire operazioni contrarie a divieti deontologici o etici, etc.) o illegali.
Per potersi parlare di mobbing, l'attività persecutoria deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.
Va peraltro sottolineato che l'attività mobbizzante può anche non essere di per sé illecita o illegittima o immediatamente lesiva, dovendosi invece considerare la sommatoria dei singoli episodi che nel loro insieme tendono a produrre il danno nel tempo. In effetti, l'ingiustizia del danno, vale a dire dell'evento lesivo non previsto né giustificato da alcuna norma dell’Ordinamento giuridico, deve essere sempre ricercata valutando unitariamente e complessivamente i diversi atti, intesi nel senso di comportamenti e/o provvedimenti.
Si distingue, nella prassi, fra mobbing gerarchico o verticale e mobbing ambientale o orizzontale; nel primo caso gli abusi sono commessi da superiori gerarchici della vittima, nel secondo caso sono i colleghi della vittima ad isolarla, a privarla apertamente della ordinaria collaborazione, dell'usuale dialogo e del rispetto.
Si parla di mobbing dall'alto, o quando l'attività è condotta da un superiore al fine di costringere alle dimissioni un dipendente in particolare, ad es. perché antipatico, poco competente o poco produttivo; in questo caso, le attività di mobbing possono estendersi anche ai colleghi (i side mobber), che preferiscono assecondare il superiore, o quantomeno non prendere le difese della vittima, per non inimicarsi il capo, nella speranza di fare carriera, o semplicemente per "quieto vivere". Si definisce invece mobbing tra pari quello praticato da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato nell'organizzazione lavorativa per motivi d'incompatibilità ambientale o caratteriale, ad es. per i diversi interessi sportivi, per motivi etnici o religiosi oppure perché diversamente abile, oppure il mobbing dal basso; generalmente la causa scatenante del mobbing orizzontale non sono tanto le incompatibilità all'interno dell'ambiente di lavoro quanto una reazione da parte di una maggioranza del gruppo allo stress dell'ambiente e delle attività lavorative: la vittima viene dunque utilizzata come "capro espiatorio" su cui far ricadere la colpa della disorganizzazione, delle inefficienze e dei fallimenti.[2]. Il mobbing strategico si ha quando l'attività vessatoria e dequalificante tende ad espellere il lavoratore, per far posto ad un altro lavoratore (di solito in posizioni di dirigenza o apicali). Il Bossing è un termine che indica azioni compiute dalla direzione o dall'amministrazione del personale e che assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale, volta alla riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure alla semplice eliminazione di una persona indesiderata. Viene attuato con il preciso scopo di indurre il dipendente alle dimissioni. Può attuarsi in modalità differenti ma con lo scopo comune di creare un clima di tensione intollerabile.
In ogni caso, il mobbing è riferibile ad un complesso, sistematico e duraturo comportamento del datore di lavoro, che deve essere esaminato in tutti i suoi aspetti e nelle loro conseguenze, per creare un coacervo di stimoli lesivi che non può né deve essere frazionato o spezzettato in tanti singoli episodi, ciascuno dei quali aventi un proprio effetto sanitario ovvero giuridico. Anche perché si è soliti ammantare con solide motivazioni anche gli atti peggiori, sì da dare ad essi una parvenza di legittimità.[3] Gli anzidetti concetti sono importanti per la dimostrazione giudiziale del mobbing.
Il primo a parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell'ambiente di lavoro è stato alla fine degli anni ottanta lo psicologo svedese Heinz Leymann che lo definiva come una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo, progressivamente spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa. In Italia è stato introdotto la tematica del mobbing dallo psicologo tedesco Harald Ege, che per primo nel 2002 ha pubblicato un metodo per il riconoscimento del danno da mobbing e del fenomeno stesso tramite il riconoscimento di 7 parametri (il cosiddetto metodo Ege 2002).
Secondo un'indagine del 1998, il 16% dei lavoratori inglesi denuncia di essere vittima di mobbing; l'Italia è ultima nella classifica UE con un 4,2%. Alcuni contratti sindacali, come quello dei metalmeccanici in Germania, prevedono un risarcimento di circa 250.000 euro per i lavoratori mobbizzati.
I sindacalisti della Volkswagen furono i primi a introdurre nei contratti di lavoro un capitolo sul mobbing con indennità e strumenti di prevenzione (i centri d'ascolto aziendali in particolare)[senza fonte].

La pratica del mobbing sul posto di lavoro [modifica]

La pratica del mobbing consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica. Ad esempio: sottrazione ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, dequalificazione delle mansioni a compiti banali (fare fotocopie, ricevere telefonate, compiti insignificanti, dequalificanti o con scarsa autonomia decisionale) così da rendere umiliante il prosieguo del lavoro; rimproveri e richiami, espressi in privato ed in pubblico anche per banalità; dotare il lavoratore di attrezzature di lavoro di scarsa qualità o obsolete, arredi scomodi, ambienti male illuminati; interrompere il flusso di informazioni necessario per l'attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull'accesso a Internet); continue visite fiscali in caso malattia (e spesso al ritorno al lavoro, la vittima trova la scrivania sgombra). Insomma, un sistematico processo di "cancellazione" del lavoratore condotto con la progressiva preclusione di mezzi e relazioni interpersonali indispensabili allo svolgimento di una normale attività lavorativa. Altri elementi che fanno configurare il mobbing, possono essere "doppi sensi" o sottigliezze verbali quando si è in presenza del collega oggetto di mobbing, cambio di tono nel parlare quando un superiore si rivolge al collega vittima, dare pratiche da eseguire in fretta l'ultimo giorno utile. Un esempio può essere il seguente: un collega, in presenza di altri colleghi, li invita ad una cena chiedendo ad ognuno di loro "allora te l'ha detto Caio che stasera vieni con noi a cena?", mentre al collega mobbizzato dice invece "tu non vieni?". Molte volte succede che l'"ordine" di aggressione al collega mobbizzato venga dall'alto e sia finalizzato alle dimissioni di qualcuno. In questo caso i colleghi che effettuano il mobbing eseguono servilmente le disposizioni del superiore anche se il collega mobbizzato non ha fatto niente di male a loro. Tutte queste situazioni ed in genere gli attacchi verbali non sono facilmente traducibili in "prove certe" da utilizzare in un eventuale processo per cui è anche difficile dimostrare la situazione di aggressione.
Secondo l'INAIL, che per prima in Italia ha definito il mobbing lavorativo, qualificandolo come costrittività organizzativa, le possibili azioni traumatiche possono riguardare la marginalizzazione dall'attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi o degli strumenti di lavoro, i ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto o di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, l'impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie, la inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, l'esclusione reiterata da iniziative formative, il controllo esasperato ed eccessivo.
È quindi chiaro che il mobbing non è una malattia ma rappresenta il termine per indicare la complessiva attività ostile posta in essere solitamente da un datore di lavoro (pubblico o privato, da solo o in combutta) per demansionare il lavoratore, isolarlo e obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.
Le azioni rientranti nella categoria della costrittività organizzativa coinvolgono direttamente e in modo esplicito l’organizzazione del lavoro e la posizione lavorativa e possono assumere diverso rilievo ai fini del riconoscimento della natura professionale del danno conseguente (Paolo Pappone et Al. Patologia psichica da stress, mobbing e costrittività organizzativa.)
La giurisprudenza dispone più frequentemente e facilmente il risarcimento del danno biologico, ma non del danno morale; il mobbing deve aver procurato una delle malattie documentate in letteratura medica per avere diritto a un'indennità dall'azienda.
In Italia, le tutele al licenziamento o trasferimento in altre sedi dei lavoratori sono maggiori che in altri Paesi ed è abbastanza diffusa la pratica di ricorso al mobbing per indurre nel lavoratore le dimissioni laddove il licenziamento è possibile solo per giusta causa (art.18 dello Statuto dei Lavoratori).[senza