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martedì 27 marzo 2012

licenziamento discriminatorio in telecom italia

1) Inquadramento normativo.
L'ordinamento giuridico italiano presenta due disposizioni fondamentali in materia di licenziamento discriminatorio: l'art. 4 della legge n. 604/66 e l'art. 3 della legge n. 108/90.
L’art. 4 della legge n. 604 del 1966 sancisce la nullità del licenziamento discriminatorio e dispone: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacale è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”. Il contenuto prescrittivo dell’art. 4 è stato ampliato dall'art. 15 St. Lavoratori, il quale dispone la nullità di qualsiasi atto o patto diretto a “licenziare un lavoratore (…) a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”, nonché la nullità dei licenziamenti attuati “a fini discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua e di sesso”.
L'art. 3 della legge n. 108/90, invece, disciplina le conseguenze in caso di licenziamento discriminatorio e prevede l'applicazione della tutela reale disciplinata dall'art. 18 Statuto dei Lavoratori indipendentemente dal numero dei dipendenti dell'organizzazione datoriale; infatti, dispone: “ Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dell’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”.
La tutela reale ex art. 18 Statuto dei Lavoratori consiste nella reintegrazione nel posto di lavoro e nel pagamento, quale risarcimento del danno subito, di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, in ogni caso non inferiore a cinque mensilità, nonché nel pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali; il prestatore di lavoro, però ha la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. La tutela reale contro il licenziamento discriminatorio è testualmente estesa a tutti i lavoratori e tra questi, espressamente, ai lavoratori domestici, ai dirigenti, ai lavoratori ultrassessantenni che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto, ai sensi dell’art. 6 del d.l. 22 dicembre 1981, convertito nella legge 26 febbraio 1982, n. 54, non avendo ancora raggiunto l’anzianità contributiva massima utile (art. 4, 2° comma, legge n. 108/1990). Restano esclusi dall’ambito di applicabilità della tutela reale i lavoratori dipendenti dalle organizzazioni datoriali svolgenti, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, per le quali la disciplina di cui all’art. 18 Statuto dei Lavoratori non trova applicazione in base all’art. 4 della legge n. 108/19901.
2) La Fattispecie.
Le ragioni discriminatorie esplicitamente contemplate dalla legge si suddividono in due settori: il primo concerne la tutela della libertà e dell’attività sindacale, il secondo la tutela di altri diritti fondamentali, più accentuatamente individuali ed inerenti alla persona del lavoratore, ai quali fa riferimento il secondo comma dell’art. 15 St. Lavoratori.2
La distinzione tra i due nuclei normativi trova riscontro nella diversità dell’apparato sanzionatorio utilizzabile; infatti, in caso di violazione dei diritti sindacali, si applica l'art. 28 St. Lavoratori, e non la tutela reale di cui all'art. 18 della medesima legge, in quanto la discriminazione per ragioni sindacali può configurarsi come un comportamento diretto “ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.
Quanto agli altri motivi discriminatori, l’elencazione contenuta nell’art. 15 Statuto dei Lavoratori non è tassativa3; i motivi illeciti non espressamente contemplati sono quelli in contrasto con le norme imperative, l’ordine pubblico ed il buon costume e tra essi possono rientrare, ad esempio, le discriminazioni per condizioni personali del lavoratore, come l’omosessualità, la ex detenzione, un handicap, anche psichico eventualmente sopravvenuto all’assunzione, la tossicodipendenza anche superata ecc.. In queste ipotesi, specie per quanto riguarda gli handicappati e i tossicodipendenti, compresi gli alcolisti, se sussistessero delle ragioni obiettive di licenziamento, quale la riduzione della capacità lavorativa o la pericolosità per le persone e per gli impianti, il licenziamento sarebbe legittimo, in quanto sorretto da un giustificato motivo oggettivo. Ma se mancasse qualsiasi giustificazione, sarebbe possibile al lavoratore licenziato dimostrare non la semplice infondatezza del licenziamento, ma anche l’illiceità per ragioni discriminatorie, in contrasto con fondamentali principi costituzionali (artt. 2, 3 e 4 Cost.).
La giurisprudenza in materia di licenziamento di persone invalide è piuttosto varia e, in taluni casi è stato escluso dai giudici la sussistenza del carattere discriminatorio del provvedimento espulsivo. Ad esempio, il Tribunale di Verbania, in un caso di periodo di prova non seguito dalla assunzione del lavoratore, ha affermato che “ove risulti accertato che l'invalido avviato obbligatoriamente sia stato adibito a mansioni compatibili con il suo stato di invalidità, che presso la struttura aziendale non sussistano altre e diverse possibilità di impiego e che il dipendente abbia reso una prestazione non soddisfacente, deve escludersi il carattere illecito o discriminatorio del provvedimento di recesso” (sent. 22 settembre 2001, in Giur. Piemontese 2006, 3 432).
Un altro caso, che vede protagonista una persona invalida e giunto al vaglio del Giudice di Legittimità, riguarda un soggetto portatore di handicap assunto con contratto di formazione lavoro per l'attività di spazzino con periodo di prova. L' invalido aveva impugnato il licenziamento disposto dal datore di lavoro, poiché la giustificazione addotta da quest'ultimo si basava sul fatto per cui il lavoratore non era in grado di impugnare lo scopone e la pala; tuttavia, il ricorrente si era limitato a dedurre la circostanza che il licenziamento era stato intimato due giorni prima del compimento del termine stabilito per l'esperimento della prova stessa. In primo grado il datore di lavoro era stato condannato alla reintegra ed al risarcimento dei danni con decisione fondata sulla residua capacità lavorativa dell'invalido (dunque, con una diversa impostazione giuridica della causa rispetto a quella dedotta dalla parte). In secondo grado, la sentenza è stata riformata ed il giudice dell'impugnazione ha condannato l'appellante al solo pagamento dei due giorni di retribuzione. In Cassazione il lavoratore ha dedotto il carattere discriminatorio del licenziamento intimatogli in quanto basato sulla incompatibilità della prestazione richiesta con la sua invalidità; ma il ricorso è stato rigettato: la Corte ha afferma che il lavoratore deve “fornire tempestivamente elementi di obiettivo riscontro, che consentano la concerta verifica della circostanza denunciata, non essendo sufficiente la mera allegazione di vizi di natura formale del rapporto.” (Cass.Civ., sez.lav., 04 dicembre 2001, n° 15315, in Giust.Civ.Mass. 2001, 2083). Il giudice di legittimità, nell'affermare questo principio di diritto, ha rigettato il ricorso dell'invalido basato sulla deduzione del carattere discriminatorio del suo allontanamento e, quindi, della illegittimità dello stesso, essendo ipotizzabile il patto di prova, in caso di avviamento di un invalido al lavoro, solo in relazione a mansioni adeguate allo stato di salute dello stesso.
Oltre ai licenziamenti discriminatori per le condizioni personali dei dipendenti, la casistica offre numerosi altri esempi di motivo discriminatorio idoneo a rendere illegittimo il licenziamento. Così, devono considerarsi illeciti i licenziamenti di ritorsione contro l’esercizio dei diritti fondamentali, come, in primo luogo, l’azione giudiziaria promossa dal lavoratore contro il datore di lavoro. La giurisprudenza, infatti, ha affermato che “la nullità del licenziamento per motivo illecito si fonda su una interpretazione estensiva della previsione di nullità per il licenziamento discriminatorio, sancita dall'art. 4, legge n. 604/1966 e successivamente estesa dall'art. 5, legge n. 300/1970 e dall'art. 3, legge n. 108/1990, con la conseguente applicazione delle garanzie di tutela reale anche a licenziamenti che siano determinati in maniera esclusiva da motivo illecito, di ritorsione o rappresaglia, costituendo essi l'arbitraria reazione datoriale a fronte di un comportamento legittimo posto in essere dal lavoratore o di rivendicazioni legittime avanzate dallo stesso.” (Trib. Agrigento, 11.06.2002, in Riv. It. Dir. Lav. 2003). Altri esempi di scopo illecito di cui c'è traccia in giurisprudenza sono: pressione sui pubblici poteri per ottenere agevolazioni fiscali economiche, ecc., in cambio della revoca dei licenziamenti intimati o minacciati, perché in contrasto con il buon costume; licenziamento di un lavoratore a tempo indeterminato al fine di far posto ad un altro da assumere con il contratto di formazione, per ottenere le agevolazioni collegate, con violazione dell’esigenza di costituire nuovi posti di lavoro, cui è ispirata la legge sui contratti di formazione, dunque motivo illecito perché in frode alla legge.
3) In particolare, il licenziamento discriminatorio del dirigente.
La legge n. 108/1990 fa riferimento ai dirigenti d’azienda in due norme: all’art. 2 - il cui secondo comma prevede l’applicazione anche ai dirigenti dell’art. 2 della legge n. 604/1966 sulla forma scritta del licenziamento e dell’art. 9 della legge medesima sull’indennità di anzianità - e all’art. 3, nella parte in cui, regolamentando il licenziamento discriminatorio, precisa che la medesima disciplina trova applicazione anche nei confronti dei dirigenti.
Secondo una parte della dottrina4, già prima della legge n. 108/1990 non vi erano fondate ragioni per escludere l’applicabilità del generale principio della nullità del licenziamento discriminatorio ai dirigenti, pur trattandosi di ipotesi non direttamente considerata nell’art. 11 della legge n. 604/1966. Infatti, tale normativa e la sanzione della nullità da essa comminata si inquadrano nello schema della nullità del negozio per illiceità del motivo determinante: la nullità del licenziamento discriminatorio, prevista come conseguenza del conflitto tra norme imperative e il motivo addotto, è perfettamente coerente con il sistema, in quanto gli artt. 1345, 626 e 788 c.c.5 attribuiscono al motivo illecito unico e determinate un’efficacia invalidante6,dunque non è altro che un trattamento giuridico generale già desumibile dai principi del nostro ordinamento.
Secondo altri autori, invece, l’art. 4 della legge n. 604/1966, nel disporre la nullità del licenziamento intimato per ragioni di credo politico o fede religiosa, per l’appartenenza a un sindacato e per la partecipazione ad attività sindacali, non poteva trovare applicazione nei confronti dei dirigenti d’azienda, poiché tale categoria di lavoratori era esclusa dall’ambito di applicazione delle disposizioni della legge n. 604 medesima, secondo quanto previsto implicitamente dall’art. 10, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Questa situazione, però, si presentava come un’ipotesi di irrazionale disparità di trattamento. Il problema è stato definitivamente risolto dall’art. 15 Statuto dei Lavoratori che ha previsto in termini generali (cioè sganciati dalla qualifica ricoperta dal lavoratore) la figura del licenziamento discriminatorio.
In conclusione, possiamo dire che l’art. 4 della legge n. 604/1966 stabilisce un precetto di portata generale e ciò è reso ancora più indubitabile dall’art. 15 della legge n. 300/1970 che, nel ribadire e specificare il divieto di atti discriminatori, fa riferimento al “lavoratore” in genere, senza operare alcuna distinzione fra le categorie dei prestatori
4) In particolare, il licenziamento discriminatorio dei lavoratori domestici.
L'art. 4 della legge n. 108/1990 prevede la nullità del licenziamento discriminatorio anche per i lavoratori domestici, i quali sono definiti dall'art. 1 della legge n. 339/1958 come “i lavoratori di ambo i sessi che prestano a qualsiasi titolo la loro opera per il funzionamento della vita familiare, sia che si tratti di personale con qualifica specifica, sia che si tratti di personale adibito a mansioni generiche”.
L’estensione della tutela prevista per il licenziamento discriminatorio ai rapporti di lavoro domestico ha trovato interpretazioni discordi in dottrina: alcuni hanno sostenuto che l’art. 4 della legge n. 108/1990 non può applicarsi a tutti i lavoratori domestici, ma soltanto ai rapporti disciplinati dalla legge n. 339/1958, a cui fa espresso riferimento, quindi soltanto a quelle prestazioni d’opera, continuativa e prevalente, di almeno quattro ore giornaliere presso lo stesso datore di lavoro7, con la conseguenza che la tutela prevista per il licenziamento discriminatorio non sarebbe applicabile a quei lavoratori domestici che non rientrano nella previsione della legge n. 339/1958.
Secondo un'altra impostazione, invece, il rinvio operato dall’art. 4, legge n. 108/1990 alla legge n. 339/1958 va considerato come funzionale alla qualificazione e all’identificazione del tipo di rapporto di lavoro per cui il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro sarebbe applicabile in ogni ipotesi di licenziamento discriminatorio, compresa la categoria del lavoro domestico. Le conseguenze pratiche di questa interpretazione sono di notevole rilievo: in primo luogo, il datore di lavoro di un collaboratore domestico è assoggettato alla tutela reale in caso di licenziamento discriminatorio, per cui al fine di evitare la reintegrazione nel posto di lavoro che di fatto potrebbe essere non realizzabile, “anche un piccolo nucleo familiare si potrebbe trovare esposto al rischio di pagare alla sua ex colf una somma di denaro tanto cospicua da risultare insostenibile” 8. Per questa ragione si è ritenuto che l’estensione della tutela reale al lavoratore domestico in caso di licenziamento discriminatorio è una previsione del tutto sproporzionata alla realtà dei collaboratori familiari e probabilmente anche di dubbia legittimità costituzionale, perché l’applicazione della reintegrazione comporterebbe una violazione del domicilio (art. 14 Cost.).
Il problema lasciato irrisolto da queste considerazioni è che non si capisce quale dovrebbe essere il regime sanzionatorio del licenziamento discriminatorio di un lavoratore domestico, se si accogliesse la proposta di eliminare la tutela reintegratoria mantenendo al contempo ferma l’invalidità del recesso.

5) La motivazione del licenziamento discriminatorio.
L’art. 3 della legge n. 108 del 1990 dichiara il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie “nullo indipendentemente dalla motivazione addotta”; dunque, si prescinde dalla motivazione formalmente addotta dal datore, ma non da quella sostanziale, che potrebbe essere tale da escludere il motivo illecito se esclusiva e determinante9. Sono state formulate due teorie fondamentali finalizzate ad individuare l'elemento discriminante in presenza del quale un licenziamento può dirsi determinato da ragioni discriminatorie: la teoria soggettiva e la teoria oggettiva.
Secondo la teoria “soggettiva”, l’elemento determinante al fine di configurare una fattispecie discriminatoria è l’intento soggettivo - psicologico del soggetto che pone in essere l’atto, in sostanza l'intento del datore di lavoro. Ad esempio, in caso di presunto licenziamento discriminatorio per motivi di sesso, occorre accertare se la considerazione del sesso abbia rappresentato nell’animus del datore di lavoro un motivo decisivo del suo comportamento, in quanto - secondo questa teoria - è sempre l’intento soggettivo o dolo che conta, non essendo sufficiente che il licenziamento sia idoneo a determinare, in considerazione delle circostanze di fatto, un pregiudizio oggettivo agli interessi tutelati dal divieto del motivo illecito. Pertanto, per escludere la presunzione di illiceità, il datore di lavoro dovrà provare l’esistenza della giusta causa di licenziamento, perché essa comporta l'estinzione immediata del rapporto di lavoro e, in quanto tale, prevale su ogni altra causa. Invece, in caso di licenziamento per giustificato motivo, per superare il motivo discriminatorio il datore di lavoro deve dimostrare che il giustificato motivo costituisce la ragione esclusiva e determinate del licenziamento. Tale prova, ad esempio, non è raggiunta quando il datore di lavoro adduce un evento, compresa un’infrazione del prestatore, che in altre occasioni era passata inosservata, o che non aveva determinato, da parte del datore, una reazione grave come il recesso, sia pure con preavviso10; oppure quando il giustificato motivo addotto consiste in un evento che per altri lavoratori ha dato luogo a conseguenze meno gravi. Secondo la teoria “oggettiva”, invece, è sufficiente la obiettiva idoneità dell’atto a ledere il diritto protetto, in quanto è irrilevante l’eventuale ricorrenza di elementi soggettivi quali la volontarietà della discriminazione, l’intenzione di nuocere, o più in generale la colpa o il dolo del datore di lavoro11; infatti, i fattori di discriminazione indicati dall'art. 4 della legge n. 604/1966 e dall'art. 15 Statuto dei Lavoratori (“credo politico o fede religiosa, appartenenza a un sindacato o partecipazione ad attività sindacali”, “affiliazione o attività sindacale ovvero partecipazione ad uno sciopero ... discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua e di sesso”) rilevano non quali fini illecitamente perseguiti dal datore di lavoro, ma come ragioni obiettive determinanti il licenziamento, come effettive motivazioni, prescindendo appunto da quelle formalmente addotte.
1 Nicolini G. - Manuale di diritto del lavoro. III ed. Milano, Giuffrè, 2000, p. 562.
2 Art 15, secondo comma, Statuto dei lavoratori: “Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso”.
3 De Simone G. - Il licenziamento discriminatorio dalla l. n. 604/1996 alla l. n. 903/1977, in AA.VV. - I licenziamenti, commentario, a cura di Mazzotta O., II ed., Milano, 1999, p. 362-368.
4 Amoroso G. - Il licenziamento del dirigente d’azienda dopo la legge n. 108 del 1990. Diritto e lavoro 1991, I, p. 151.
5 Art. 1345 c.c.: “Motivo illecito – Il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe”. Art. 626 c.c.: “Motivo illecito – Il motivo illecito rende nulla la disposizione testamentaria, quando risulta dal testamento ed è il solo che ha determinato il testatore a disporre”. Art. 788 c.c.: “Motivo illecito – Il motivo illecito rende nulla la donazione quando risulta dall’atto ed è il solo che ha determinato il donatore alla liberalità”.
6 Santoni F. - Il licenziamento discriminatorio del dirigente. In Rapporti speciali di lavoro. Torino, Giappichelli, 1993, p. 112-115.
7 La tesi pare attribuita a Supplej da De Angelis, La giurisprudenza sulla reintegrazione del lavoratore al primo impatto con la L.108 del 1990. Foro italiano 1990, I.
8 Carinci - Licenziamenti e statuto: vent’anni per cambiare. Diritto pratico del lavoro 1990, p. 1594.
9 Mazziotti F. - I licenziamenti dopo la legge 11 maggio 1990, n. 108. Torino 1991, p. 93-94.
10 Tullini - Clausole generali e rapporto di lavoro. Rimini, 1990, p. 212.
11 De Simone G. - Il licenziamento discriminatorio, in AA.VV. I licenziamenti. Commentario, a cura di Mazzotta, II ed., Milano, 1999.

martedì 20 marzo 2012

nuovo articolo 18 in telecom italia

riforma fornero e impatti sulla telecom   analisi e commenti

venerdì 9 marzo 2012

programma scipero mps 16 marzo 2012


MANIFESTAZIONE A SIENA




Nell’ambito dello sciopero generale nazionale dei dipendenti della Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. indetto dalle scriventi OO.SS. per venerdì 16 marzo p.v. invitiamo tutti i lavoratori a partecipare alla manifestazione che avrà luogo a Siena.

Questo il programma:


ore 11.00 concentramento a La Lizza



ore 11.30 partenza del corteo per le vie cittadine



ore 12.30 comizio conclusivo in Piazza Salimbeni





Il corteo per le vie cittadine seguirà il seguente percorso:

La Lizza - Piazza Gramsci - Via Malavolti - Piazza Matteotti - Via Pianigiani – Banchi di Sopra - Banchi di Sotto - Via Rinaldini - Piazza del Campo - Costarella dei Barbieri - via di Città - Banchi di Sopra - Piazza Salimbeni

Vista l’importanza del momento raccomandiamo quindi adesione massima allo sciopero e partecipazione alla manifestazione.


Siena, 07 marzo 2012

LE SEGRETERIE


adesione sciopero mps 2012

venerdì 2 marzo 2012

sindacato telecom italia

rispondete al sondaggio sul sindacato telecom italia.

vi ricordo che all`interno del sito c`e` illink webmail telecom italia per far leggere la posta da casa ai dipendenti

grazie

offerte dipendenti telecom italia pasqua 2012

a breve verranno pubblicate tutte le offerte riservate a dipendenti telecom italia. siete pregati, in attesa della pubblicazione,  di segnalarci per esempio le eventuali offerte per pasqua 2012 per i dipendenti telecom italia. tutti i cmmenti sono accettati. grazie